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La meravigliosa storia
della Fotografia 5
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E
Talbot inventa il 'negativo'
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Mentre le prime
immagini realizzate da Niepce in unico esemplare erano piuttosto
confuse e bluastre, i dagherrotipi avevano il pregio di apparire
in qualche modo 'colorati'. Ripresi in un unico esemplare su una
lastrina argentata riflettevano la luce con cui venivano
illuminati. I colori dei dagherrotipi però erano immaginari in
quanto non appartenenti alla lastra osservata (che si limitava
ad avere parti scure brunite e parti chiare argentate) ma
determinati solo dalla qualità della luce con cui si effettuava
l'osservazione, cosicchè ci si poteva convincere di scorgervi
colori che in realtà esistevano solo nell'immaginazione. Per di
più alcune di queste immagini erano riprese su un supporto
dorato per cui il colore della pelle risultava molto
somigliante. Per questo motivo il tradizionale nudo artistico fu
fra i soggetti preferiti.
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Un
dagherrotipo di nudo della seconda metà dell'ottocento.
La riproduzione su lastrina di metallo dorato
dava a questo tipo
di soggetti l'illusione che
fossero colorati.
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I dagherrotipi di
nudo però erano costosi e rari (certo anche a causa del
particolare soggetto allora considerato osèe). Spesso, per
consentire una lunga posa senza 'mosso', la modella veniva prima
ritratta a mano, nel modo più somigliante possibile, poi il
dagherrotipo si otteneva (pensate) fotografando... il
quadro!
Si tentò allora di rendere più certi e stabili i colori
anteponendo alla lastra metallica un vetro sottilissimo sul
quale i colori venivano riportati a mano con le tradizionali
tinte ad olio, ma ciononostante il colore nelle fotografie
continuava ad essere un'opinione.
Nonostante i suoi notevoli limiti e la indubbia macchinosità
del procedimento, che oggi ci inducono al sorriso, tuttavia il
metodo di Daguerre ebbe un grande successo e l'uso del
dagherrotipo si diffuse rapidamente, in particolare per ottenere
ritratti (allora molto in voga) molto somiglianti e realistici.
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Un
volantino pubblicitario del 1846 nel quale un dagherrotipista
romano evidentemente di origine francese, tale Perraud, assicura
perfetti ritratti 'al Daguerrotype'. Perraud - dice il volantino - previene le persone che
desiderano avere il loro ritratto, ch'egli lo consegna tutto
finito per il prezzo di Scudo Uno Romano, tanto colorito che in
nero. Il testo poi aggiunge: Molte persone credono che se non fa
sole i Ritratti non possono riescire perfetti,ma questo e
un errore generale, anzi fatti senza sole riescono con più
facilità.
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I
nuovi ritrattisti dagherrotipisti aprirono i loro studi in tutte
le maggiori città del mondo, alcuni esercitavano la professione
in modo ambulante, come risulta dalla pubblicità dell'epoca.
Anche in Italia la dagherrotipia si diffuse rapidamente; il
primo manuale tecnico, tradotto dal francese, è del 1840. Il
successo delle immagini di Daguerre e dei suoi numerosi seguaci
comunque non durò a lungo. E la notevole somma che lo
Stato francese aveva speso, complice l'affarista Arago, per
sovvenzionare Daguerre affinchè il suo procedimento fosse
libero da brevetti, si rivelò ben presto una spesa inutile.
Pur rappresentando soluzioni di indubbio interesse scientifico e
di grande richiamo anche dal punto di vista pratico, il processo
di Niepce, la dagherrotipìa e i procedimenti consimili
differivano abbastanza profondamente dai moderni procedimenti
fotografici. Essi infatti davano direttamente un' immagine
positiva (cioè con i chiari e gli scuri corrispondenti a quelli
del soggetto), unica, invertita e da cui non si potevano
ottenere copie.
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L'inglese
William Henry Fox Talbot
(1800-1877) inventore del procedimento che per la prima volta
usava negativo (di carta) e positivo
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D'altronde
l'immagine ottica stabile, economica e di veloce esecuzione,
oltre che di dimensioni variabili, facilmente riproducibile e
adatta ad essere usata per la riproduzione di altre immagini,
non poteva essere la miniatura meccanica di Daguerre, se essa
era persino più costosa di certe miniature fatte a mano.
Inoltre doveva registrarsi sulla carta che da tempo immemore ed
ancor oggi, è il meno costoso dei supporti grafici.
Pochi anni dopo fu l'inglese William Henry Talbot a porre
le basi della fotografia chimica così come la intendiamo oggi,
cioè quel procedimento che tramite un negativo permette di
ottenere una o più stampe positive su carta.
Nel 1833 Talbot era in vacanza sul
Lago di Como e si divertiva a fare disegni con l'aiuto di una
camera oscura. Riflettevo sull'immutabile bellezza dei
quadri che la Natura offre - racconterà poi - e che le
lenti della camera oscura riproducono sulla carta....quadri
favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi
venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le
immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta
rimanendovi fissate per sempre".
Talbot si mise al lavoro spinto da questa
affascinante idea e nel 1839 rese note le prime conclusioni dei
suoi studi, presentando il primo vero processo fotografico che fu
denominato in inglese Talbotype (poi tradotto talbotipìa in
italiano).
Tale procedimento ed il suo successivo
perfezionamento chiamato Calotype (calotipìa), presentato nel
1841, erano fondamentalmente basati su un processo
negativo-positivo con il quale si potevano ottenere, grande novità
questa, anche molte copie dalla medesima posa. Sia il negativo che
la stampa positiva erano costituiti da una carta impregnata di
cloruro d'argento (ioduro d'argento nella Calotipìa).
Fondamentale era stata la scoperta che il sale d'argento, non
alterato dall'azione della luce, può essere sciolto in diverse
soluzioni (sale da cucina all'origine e più tardi acido gallico).
Con la carta ai sali d'argento di Talbot l'immagine della macchina
fotografica si impressionava in negativo. Bastava però
rifotografare il negativo di carta per invertire l'iimmagine,
traducendola cosi in positivo.
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La prima stampa
ottica su carta sensibile, una modestissima scopa sull'uscio di
una rimessa, venne messa da Talbot sulla copertina de "The
Pencil of the Nature" (La matita della Natura) la prima
rivista fotografica della storia
Cliccare sull'immagine
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Esperimenti
di annerimento della carta in vari modi sensibilizzata erano già
stati tentati nel XVII secolo, riuscendo talvolta ad ottenere
"silhouette" bianche su nero senza intervento manuale.
La calotipia Talbot rese finalmente popolare, cioè economico,
il ritratto mettendo seriamente in crisi i pittori moltissimi
dei quali abbandonarono i pennelli e impararono la nuova
tecnica, come in Italia Tommaso Cuccioni, ad esempio, gìà
celebre incisore. I nuovi fotografi ex pittori ci tenevano però
ad assicurare che fra immagine manuale e immagine ottica non
esisteva nessuna sostanziale differenza e nei "marchi"
di allora, bellissimi, i simboli delle due arti sono
combinati.
Infine la calotipia consentì per la prima volta l'ingrandimento
automatico del negativo. La carta veniva resa trasparente come
fosse una "pellicola" ungendola con vasellina.
Il contributo di Talbot per il progresso
della fotografia fu notevole ed importante. Ma egli scrisse
modestamente e con una notevole dose di intuito: "Non
credo di avere perfezionato un'arte, i cui sviluppi non è
possibile al momento prevedere con esattezza. Penso invece di
aver dato ad essa solo un inizio. Credo di avere costruito
fondamenta sicure e sarà compito di mani ben più abili delle
mie erigere i piani superiori".
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Studio
fotografico Talbot nel 1841
Cliccare sull'immagine |
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Le immagini su carta, ottenute con il
procedimento negativo-positivo da questo "scienziato
dilettante" (com'egli stesso amava definirsi), non
possedevano però, per quanto riguarda i colori, la suggestione
di quelle immaginifiche figure 'metalliche' di Daguerre.
Erano semplicemente della tinta eventuale della carta sulla
quale apparivano, modellata dal chiaroscuro prodotto
dall'annerimento più o meno intenso del cloruro d'argento. In
compenso però si potevano dipingere più facilmente a mano, di
quanto si riusciva a fare sui sottili vetrini che coprivano i
dagherrotipi. Possedevano poi l'inestimabile vantaggio della
potenziale tiratura in un numero illimitato di esemplari. Lo
stesso negativo originale poteva infatti essere rifotografato,
cioè copiato in positivo con la macchina fotografica medesima,
quante volte si voleva.
E anche su carta sottilissima, quasi
trasparente, che, se veniva colorata sul dorso, rivelava le tinte
senza mostrarle e solo se attraversata dalla luce, come una
vetrata.
Le tappe successive furono i processi all'albumina (1847),
al collodio (1851) e alla gelatina (1873), che permisero di usare
come supporto per la sostanza sensibile una lastra di vetro e
successivamente anche una sottile pellicola trasparente al posto
della carta. Ovviamente le prime emulsioni erano di scarsissima
sensibilità e quindi richiedevano un tempo di esposizione
estremamente lungo, pertanto le ricerche furono orientate per un
lungo periodo verso la scoperta di emulsioni sempre più
sensibili. Nel 1864 infatti, B. J. Sayce e W. B. Bolton
introdussero per la prima volta il bromuro d'argento nella
emulsione colloidale e nel 1871 Charles Maddox sostituì il
collodio con la gelatina. Infine Desiré Charles Monckoven impiegò
una soluzione ammoniacale nella fabbricazione delle lastre secche.
La
tecnica inventata da Talbot portò al rapido declinio dei
dagherrotipi.
Negli anni successivi alcuni intuirono le
grandi potenzialità di documentazione della fotografia usandola
nel corso di avventurosi viaggi di ricerca, i cui risultati
costituiscono oggi un patrimonio prezioso per la conoscenza di usi
e costumi ormai scomparsi. Nell'Ovest degli Stati Uniti, dove
vasti territori selvaggi erano stati appena strappati agli
indiani, a partire dal 1860, inizia la documentazione della
cosiddetta Grande Frontiera. L'arrivo di avventurosi fotografi
avviene al seguito delle spedizioni governative. Sono fotografi
quali Eadweard Muybridge (noto anche per i suoi studi sul
movimento), Fredrerick S. Dellenbaugh e William Henry Jackson. Nel
1871 Dellenbaugh, a proposito del suo viaggio nell'Ovest, scrisse:
'La macchina fotografica racchiusa nella sua custodia, una cassa
robusta, era un peso grave da portare fin sulle rocce, ma questo
era niente se paragonata alla cassa in cui c'erano i prodotti
chimici e le lastre. E ancora quest'ultima sembrava una piuma di
fronte a quella specie di organetto che fungeva da camera
oscura'... (Fine)
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