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La meravigliosa storia della
Fotografia 2
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Il
primo fotografo fu il Sole
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Le grandi scoperte dell'uomo, le invenzioni scíentifiche e tecniche che segnarono una svolta definitiva alla storia del progresso nell'epoca moderna, non si sono quasi mai verificate per illuminazioni improvvise e definitive del genio di uno studioso isolato. La famosa "mela" di Newton fece intuire allo scienziato una delle leggi fondamentali della fisica, ma prima di quel momento una concatenazione di percezioni, di elaborazioni, di controlli, aveva predisposto l'intelletto di Newton alla scoperta. Così è successo per la fotografia, che non è nata da un momento all'altro, ma il cui avvento è stato nel corso dei secoli, preparato da intuizioni diverse di fenomeni, da ricerche e conferme.
Potremmo risalire fino ad Aristotele, vissuto nel quarto secolo prima di Cristo, e alle sue osservazioni sulla luce, sui colori e sul senso della vista; oppure al vescovo santo Alberto Magno il quale senza saperlo anticipò nel sec. XIII la teoria chimica dell'annerimento prodotto sugli oggetti dal nitrato d'argento. Potremmo ricordare tanti altri, da Vitruvio a Plinio il Vecchio dal monaco e fisico inglese Ruggero Bacone (il primo a chiarire il fenomeno della camera oscura), al monaco francese Guglielmo di St. Cloud il quale si servì della camera oscura per osservare l'eclisse solare del 5 giugno 1285. E, naturalmente, Leonardo Da Vinci. Tutti, in un certo senso furono preparatori di quelle indagini teoriche che condensarono i presupposti dell'invenzione.
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Camera
oscura reflex portatile dell'inizio dell'800 ed il chimico
tedesco Johann Heinrich Schulze (1687-1744) iniziatore della
fotochimica
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La nascita della fotografìa è legata anche agli esperimenti della scienza da cui nacque la chimica, cioè all'alchimia. Alla fine del Medioevo, gli alchimisti, facendo riscaldare il cloruro di sodio (o sale da cucina) insieme con l'argento, avevano scoperto che dal sale si liberava un gas, il cloro, il quale combinandosi con l'argento, provoca la formazione di un composto, il cloruro d'argento, che è bianco nell'oscurítà, ma che diventa violetto o quasi nero quando è esposto ai raggi del sole. L'inglese Robert Boyle, uno dei fondatori della Royal Society, già nel 16° secolo aveva notato che il clorato d'argento diventa scuro in certe circostanze, ma aveva creduto che a causare il mutamento di colore fosse l'aria e non la luce. Nei primi anni del 1600 l'italiano Angelo Sala aveva poi rilevato che la polvere di nitrato d'argento viene annerita dal sole, senza riuscire però a portare a termine alcuna applicazione pratica del fenomeno. Un analogo influsso della luce fu riscontrato su altre sostanze, soprattutto sul bromuro di argento, sull'ioduro d'argento e sull'asfalto o "bitume di Giudea". Era quindi naturale che, ad un certo punto, nascesse l'idea di utilizzare la singolare proprietà dei raggi luminosi di ottenere immagini sulla superficie di sostanze chimiche sensibili alla luce.
Nel Settecento, illustri chimici tentarono di risolvere il problema, ma più che immagini riuscirono a ottenere contorni di immagini, cioè silhouettes. Questo nome deriva infatti da Stefano Silhouettes, iniziatore della moda di farsi fare il ritratto, o meglio la caricatura, per mezzo di un pezzo di carta scura, tagliata con le forbici sul contorno della propria immagine e incollata su carta chiara. Il procedimento, che il chimico tedesco Johann Heinrich Schulze (1687-1744), iniziatore di un nuovo ramo della scienza, la fotochímíca, battezzò già nel Settecento con il nome di 'fotografia' (dalle parole greche luce e scrittura), era il seguente: su una pìastra metallica, o su un foglio di carta ricoperto di cloruro d'argento ed esposto alla luce, si posava il corpo di cui si voleva ottenere la silhouette, una mano per esempio. Le parti coperte dalla mano restavano bianche e il resto della piastra si anneriva, lasciando il contorno esatto della mano. Ma quando la mano veniva tolta, anche la sua immagine si anneriva e si cancellava. Era il 1727.
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Fu
Newton a scoprire che con un prisma di cristallo la luce può
essere scomposta nei colori fondamentali.
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Mentre questi esperimenti, che oggi appaiono quanto meno ingenui, si moltiplicavano ma senza alcun risultato pratico (spesso anzi erano pretesto per divertimenti da salotto), uno scrittore francese, Tiphaigne de la Roche (1729-1774) pubblicava nel 1760 un racconto, che oggi chiameremmo di fantascienza, intitolato Giphantie (dall'anagramma del suo nome di battesimo) e nel quale descriveva un meraviglioso Eden a nord della Guinea. Qui un esploratore è accompagnato da una guida molto sapiente, la quale espone in perfetto stile scientifico quelle che, a dìstanza di un secolo, diverranno le teorie fondamentali della fotografia. "I raggi di luce, i quali vengono riflessi da corpi diversi, formano un' immagine e disegnano i corpi sopra ogni superficie lucida come fanno sulla retina dell'occhio, sull'acqua o sul vetro. Gli spiriti primigeni sono riusciti a fissare queste fuggevoli immagini: hanno composto una materia sottìle, molto viscosa, capace di indurirsi e dì essiccarsi, con la quale un ritratto può essere fatto ìn un batter d'occhio". E qui, la pagina del racconto si avventura in una precisazione a dir poco sorprendente.
Aggiunge infatti la guida: "Spalmano di questa materia un pezzo di tela e lo pongono di fronte all'oggetto che pensano di ritrarre. La tela agisce innanzi tutto come uno specchio e riflette tutte le figure vicine e lontane la cui immagine può essere trasmessa dalla luce. Ma, a differenza di quanto può fare lo specchio, la tela, per mezzo dello strato viscoso, conserva l'immagine". La tela doveva poi essere trasportata in un locale buio dove la vernice, asciugandosi nel termine di un'ora, assicurava un'immagine indelebile, di grande bellezza e perfezione. Non sappiamo se l'autore del libro abbia avuto qualche sogno precognitore o se il libro abbia fatto scalpore. I suoi lettori l'avranno forse considerato come un piacevole azzardo di fantasia, ma ne saranno rimasti sorpresi e pensosi, e proprio per l'incanto dell'intuizione, quanti si interessavano alle teorie della luce e alla riproduzione delle immagini della realtà. C'era in Giphantie (si stenta a credere che sia stato scritto nel 1760) tutto ciò che in seguito sarebbe diventato di conoscenza comune; persino la teoria della durata di esposizione e l'accenno alla camera di sviluppo(!). Incredibile, non vi pare?!
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Thomas
Wedgwood (1771-1805)
nel 1803 era riuscito ad ottenere
deboli immagini su pelle bianca.
Ma morì prima di trovare il modo
di renderle stabili.
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La fotografia avrebbe potuto nascere già molto prima di quanto essa effettivamente 'vide la luce'. Le fondamenta su cui essa si sarebbe basata erano già note da tempo. La camera oscura era conosciuta fin dai tempi di Aristotele e l'effetto delle sostanze chimiche che sarebbero state poi usate era in parte già noto. Ciò che venne a mancare fu quel particolare connubio di mezzi tecnici, intuizioni, casualità e fortuna che più tardi si è poi verificato.
All'inizio dell'800 capitò anche all'inglese Thomas Wedgwood (1771-1805) di mancare il bersaglio per poco. Con l'aiuto dell'amico Sir Humphrey Davy, Wedgwood, che era figlio di un noto ceramista, riuscì ad ottenere deboli immagini su pelle bianca sensibilizzata col nitrato d'argento. Non riuscì però a fissarle in modo stabile e le sue 'fotografie' potevano essere viste solo furtivamente alla luce di una candela. Appena esposte alla luce semplicemente svanivano.
Nella sua relazione presentata nel 1802 alla Royal Society britannica Wedgwood scrisse:"La copia di un'immagine immediatamente dopo essere stata ripresa deve essere mantenuta in un luogo oscuro. Può essere esaminata nella penombra, ma solo per pochi minuti".
Wedgwood fu sfortunato: morì tre anni dopo (a soli 37 anni) senza poter portare a termine i suoi studi. Ancora qualche anno e forse sarebbe riuscito nell'intento di rendere stabili le sue immagini, eliminando la sensibilità del nitrato d'argento all'ulteriore azione della luce. E la paternità della fotografia sarebbe stata sua.
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Joseph
Nicéphore Niépce (1765-1833)
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Il fissaggio delle immagini ottenute con sistema fotochimico restava un problema ancora tutto da risolvere nel 1814, anno in cui Joseph Nicéphore Niepce, nella sua casa di campagna a Gras, presso Chálon-sur-Saóne, sperimentava un nuovo sistema per semplificare l'incisione sul metallo. Niepce, che dal 1801 si era dedicato interamente alle ricerche scientifiche, aveva concentrato il suo interesse sulla litografia, il procedimento di stampa a mezzo di pietra incisa inventato dal tedesco Alois Senefelder intorno al 1796 e introdotto in Francia (dove era già noto agli inizi dell'Ottocento) nel 1814 dal conte Charles Philippe Lasetvrie du Saillant. Subito Niepce pensò di perfezionare quel sistema tipografico. Anzitutto sostituì la pietra con una lastra di stagno. "Poi - racconta un suo biografo - gli venne in mente di sostituire anche la matita tipografica e allora un'idea strana, fantastica, si impadronì di lui: trovare un mezzo per indurre la luce a fare il disegno". Si sa quel che vale un'idea fissa, quando non è del tutto chimerica. Ma quella di Niepce sembrava esserlo e per realizzarla ci volle tutta la sua prodigiosa tenacia. Niepce, d'altronde, malgrado la stranezza del suo proponimento, non era un visionario.
Si rendeva conto dell'enorme difficoltà dell'impresa, ma aveva ragioni molto positive per credere che essa non fosse assurda. Ed ecco come riuscì, dopo aver costretto il sole a disegnare, a impedirgli di distruggere la propria opera. Prendeva una lastra di rame argentato, la ricopriva di un sottile strato d'asfalto (il cosiddetto bitume di giudea, usato dagli incisori perchè molto resistente agli acidi) e la collocava in una cassetta di legno, che funzionava da camera oscura, di fronte a una tavola disegnata o dipinta. Dopo una giornata, le parti dello strato di bitume che erano rimaste "impressionate", cioè esposte all'azione della luce riflessa dalle zone più chiare del dipinto, erano diventate bianche le altre non mutavano colore, cioè restavano nere. Allora Niepce immergeva la lastra in un bagno d'essenza di lavanda che scioglieva il bitume non impressionato, lasciando intatto quello reso bianco dalla luce. Sulla lastra di rame argentato restava così soltanto il bitume che riproduceva la immagine in negativo. Niepce chamò il procedimento da lui inventato eliografia.
Ecco
quella che a tutti gli effetti può essere considerata la prima vera
fotografia della storia dell'umanità! Risale al 1826. Nicéphore
Niepce la ottenne con una posa di ben otto ore su una lastra per
eliografia da lui stesso preparata. Oggi è conservata presso
l'Università del Texas ad Austin (USA). Cliccare sulla foto per
vederla ingrandita.
Questo primo risultato non era, come abbiamo detto, lo scopo finale cercato dall'inventore. Niepce voleva preparare lastre per stampa. Perciò egli spandeva, sulla lastra trattata, un acido destinato a incidere le parti del metallo messe a nudo, ma che non poteva attaccare le parti ancora ricoperte dal bitume. Questo veniva poi tolto e le parti da esso protette, presentavano, in rilievo la riproduzione (sempre in negativo) del disegno. La lastra era così pronta per la tipografia. Ben presto però Niepce fu tentato di applicare il suo procedimento alla fotografia. Inizialmente seguì la linea di Schultze e del chimico inglese Thomas Wedgwood: riprodusse cioè disegni e stampe resi trasparenti spalmandoli con oli e vernici e applicandoli su lastre ricoperte di sostanze sensibili alla luce. Poi cominciò a usare la camera oscura per ritrarre immagini dal vivo.
Il 5 maggio 1816 così scriveva al fratello Claude:
"Ho messo il mio apparecchio sulla finestra aperta della stanza dove lavoro, dirigendolo verso la piccionaia. Ho fatto l'esperimento nel mio solito modo e ho ottenuto sulla carta bianca quella parte della piccionaia che si vede dalla finestra ed una debole immagine anche di questa, che era meno illuminata".
Ventitrè giorni dopo, il 28 maggio, applica all'obiettivo un rudimentale diaframma che renderà più nitida l'immagine.
Per cinque anni Niepce lavora accanitamente alla ricerca di materie più sensibili all'azione della luce tentando di tutto: il nitrato al cloruro d'argento, il perossido di manganese, il cloruro di ferro, ìl "safran de Mars", il fosforo, la cocciniglia. Il 3 settembre 1824 riesce infine a fissare solo i contorni di un paesaggio.
E finalmente nel 1826 quella che puo' essere considerata la prima vera fotografia proprio da quella finestra dove un decennio prima aveva posto il suo apparecchio. Posa di ben otto ore su una lastra di peltro per eliografia, spalmata di bitume di giudea e posta all'interno della sua camera oscura con diaframma. E alla fine l'immagine era lì sotto i suoi occhi. Era fatta! La prima fotografia del mondo era impressa, in positiva diretta, su una lastra di peltro lucidata.
In quel momento Niepce realizzava il suo sogno, che era stato anche quello di quanti lo avevano preceduto: il sogno antico e affascinante di disegnare senza pennelli, direttamente con la luce! L'anno dopo si reca alla Royal Society di Londra per una dissertazione sul suo procedimento chiamato 'eliografia'. Ma si rifiuta di svelarlo per intero e per difetto di documentazione quanto egli ha comunicato non è accolto agli atti. Tornato da Londra avvilito ma indomito Niepce incontra Louis-Jacques-Mandé Daguerre.
(Continua)
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La
meravigliosa storia della Fotografia 3
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